La marcia dei migranti verso la speranza e l’egoismo che mangia ogni cosa

rifugiati-1-1024x721“Il più piccolo dolore nel nostro mignolo ci preoccupa e c’infastidisce di più della distruzione di milioni di nostri simili”. Così parlava William Hazlitt. E aveva ragione. Quella frase è, oggi, più che mai attuale se rivolta all’atteggiamento di coloro che si professano “paladini di giustizia” eppure respingono i “fratelli”, esseri umani, che hanno bisogno di aiuto.

Dall’Est i migranti sono trattati come carne da macello, come un problema da dimenticare. Rigurgiti xenofobi che addormentano le coscienze: “tanto non ci riguarda, che frega a noi? Nulla”.

Mentre Austria e Germania aprono le frontiere, mentre cresce la marcia dei profughi verso Vienna, Russia, Bulgaria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia hanno respinto come inaccettabili le “quote” da ripartire fra tutti i Paesi Ue, forse alla luce di vecchi miti nazionalisti con l’aggiunta di derive xenofobe. A tendere la mano non ci pensano neppure. Siamo nel pieno di un dramma epocale. “Ma ci pensino gli altri”, dicono.

Sembra di essere tornati indietro di decenni, quel “siamo tutti uguali” sbandierato dai più, non solo non è vero, ma è stato tradotto nella convinzione che ci siano ancora – sì anche oggi nel 2015 – popoli superiori e popoli inferiori, persone di serie A e persone di serie B, uomini e donne da sacrificare, bambini da dimenticare, anche se muoiono su una spiaggia in riva al mare, anche se non avevano neppure 4 anni, anche se non hanno mai potuto scrivere il proprio nome su un compito di scuola.

Fino a oggi, dall’inizio del 2015, sono morte migliaia di persone nel Mediterraneo. Tutto questo è inaccettabile e intollerabile. Dopo la drammatica tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (366 morti), i politici e le istituzioni avevano detto: “Non succederà mai più”. Ma uomini, donne e bambini, in fuga da guerre, fame e violenze, continuano a morire in mare.

La morte di Aylan, il bimbo annegato con la mamma e il fratellino ci ricorda che se noi avessimo sul serio “aiutato a casa loro” i siriani – che ricordiamo scappano da casa loro non per diletto ma per fuggire dalla guerra e cercare una vita migliore – la famiglioa di Abdullah Kurdi non sarebbe venuta via da Kobane per andare incontro alla strage. Non si tratta di migrazioni di persone in cerca di lavoro o di sicurezza economica, ma di uno spostamento di popolazioni che nei loro Paesi non possono più sopravvivere. La nostra dignità di uomini ci impone una mobilitazione etica all’insegna del rispetto per la vita.

Dove eravate tutti? Dove eravamo tutti? Dov’era la politica che oggi davanti alle telecamere e dietro ai microfoni dei giornalisti si professa addolorato per ciò che succede. Dov’era in quel momento? Dov’è ogni giorno, dov’è quando arrivano frotte di migranti assetati, stipati, torturati dagli scafisti. Dov’è quando – scesi da quella barca che a loro sembrava tanto un mezzo per evadere dal male – l’ultima goccia di speranza muore dentro a quegli occhi che troppo hanno sofferto, su quelle spalle che troppo hanno sopportato. Dove eravate tutti?

Aylan Kurdi si poteva salvare, e come lui si potevano salvare le migliaia di bambini che muoiono, ogni giorno, se si fosse dato risalto alle loro “vite” quando erano ancora tali.

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