Noi, il Sud e un destino di emigrazione

Matteo e Raffaella sono due giovani siciliani che, come molti altri loro conterranei che non abitano nei dintorni di Palermo, sono strati costretti a farsi ore interminabili di pullman, per arrivare all’aeroporto di Punta Raisi.

Lì fuori, in una pista lontana dai normali imbarchi e ancora più disagevole da raggiungere, li attende il loro volo low cost RyanAir. Destinazione Londra e Oslo. Sempre la vecchia e cara Europa, ma non più Italia. Lontano, anche se a malincuore, da questo Paese.

Via, forse per sempre, alla ricerca, come un tempo fecero i loro nonni, di un destino migliore. Di quelle possibilità “che si rischia di morire ad inseguirle” – dice Matteo con un sorriso cinico e denso di tristezza.Carichi di valigie e pacchi, testimoni silenti di una lunga lontananza da casa, hanno il volto stanco e dalla voce, a volte rotta, con cui raccontano la loro storia, sembrano consapevoli dell’ineluttabilità del loro partire.

Un andare necessario e indispensabile. Per non tornare. Le loro, sono due delle tante storie di emigrazione e sofferenza giovanile che passano da questo aeroporto. Che lasciano questo Sud infame, senza più gloria. Né prospettive da offrire.

“Ogni volta che lascio questa terra, la mia terra, non riesco a capacitarmi – racconta Matteo, 31 anni, laureato a Catania in Biotecnologie – che qui sia nata nell’epoca classica la cultura e la scienza. Non riesco a pensarla centro di un mondo che fu, quando oggi neanche le ceneri sono rimaste. Ho un biglietto di sola andata. So che passerà molto tempo perché possa tornare. E la coscienza di questo fa ancora più male della partenza stessa. Ma qui se hai un’idea, nessuno, Stato compreso, ti aiuta. L’Italia non è un paese per start-up”.

Da Palermo, come dalla Sicilia intera, sono tanti i giovani che emigrano. Oggi, come allora. Qui in Sicilia, c’è sempre una crisi da cui partire. Lasciano casa, affetti, famiglie. Alle spalle il lavoro che non c’è, le ditte che non assumono o chiudono, il costo della vita che aumenta, la formazione universitaria che non assicura più un impiego. Loro come i nonni e i padri, che mai avrebbero pensato che altri sarebbero dovuti partire. E invece dalla Sicilia si parte e si emigra. E, quasi sempre, non si torna più.

Raffaella ha 28 anni, è di Erice, un piccolo paesino in cima ad una rocca, in provincia di Trapani. Dopo una laurea in lettere, a Palermo, si è specializzata nello studio delle culture nord-europee e ha vinto un borsa di studio, concessa dalla Comunità Europea, per approfondire i suoi studi ad Oslo, in Norvegia. La borsa è di 18 mesi, prorogabile a discrezione dell’ateneo norvegese. In base ai risultati e gli obiettivi raggiunti. “Consiglio – dice Raffaella – ai maturandi di non iscriversi a lettere. E’un suicidio. Pochissime opportunità, mal pagate e nessuna prospettiva di stabilità. Oggi, senza la buona conoscenza delle lingue e una preparazione scientifica hai poche chances di poter partire.”

Ma il problema non sono solo gli studi e la preparazione universitaria. “Sono anche i soldi”, continua. “La mia famiglia ha fatto debiti per mandarmi all’estero a studiare bene l’inglese e per frequentare corsi di specializzazione, che data la particolarità dei temi, solo alcune università private del Nord offrivano. Io vorrei tornare un domani, ma come si fa? Per fare cosa? Per ritrovarmi precaria a Palermo in un call center come le mie amiche? – conclude – 500 euro al mese, dimissioni in bianco e nessun diritto. Prendere o lasciare! No, non ci sto”.

Fonte Linkiesta

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